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sabato 11 dicembre 2010

Intervista a Fabrizio Villa

Chi è Fabrizio Villa?

45 anni. Dopo gli studi, nel 1988, inizia quella che considero la mia più grande scommessa professionale: decido di dedicarmi esclusivamente al fotogiornalismo.
La consapevolezza che per svolgere al meglio questa professione non sia sufficiente scattare solo fotografie mi spinge ad affrontare, nel 2002, l'esame per diventare Giornalista. Le mie foto e i miei servizi sono pubblicati sul Corriere della Sera, Panorama, Famiglia Cristiana, Sport Week, Sette, il Venerdì di Repubblica, Gente, Oggi, Grazia, Focus, Geo, Der Spiegel. Ho fotografato anche per conto di alcune agenzie internazionali quali l’Associated Press, la France Presse e l’agenzia Contrasto. Aver vissuto e lavorato in Sicilia è stato determinante per le esperienze acquisite e la mia formazione professionale. Da pochi mesi vivo a Roma stabilmente.


Fabrizio, sei nato con la vocazione di fare il fotografo?

Credo che la mia vera vocazione è quella del giornalista - fotografo, binomio perfetto per raccontare storie di uomini, fatti ed avvenimenti. Da questo nasce il mio desiderio di documentare per immagini il disagio sociale e di essere, contemporaneamente, testimone attivo del tempo.


Hai un genere fotografico preferito? E perchè?

Prediligo i reportage sociali, scientifici e le storie di personaggi che calamitano l'interesse del lettore. Mi piace dare voce e visibilità a chi non ce l'ha. A quelle storie che non sono conosciute o riconosciute. Questo lo considero anche un dovere, cioè quello di informare.


Tu passi dal ritratto al reportage. Tra i tuoi lavori ce n’è qualcuno a cui ti senti particolarmente legato?

"Se questi sono uomini" è il titolo di un reportage che poi è diventata una mostra. Tratta il tema dell'immigrazione. Un modo per raccontare mille storie, ognuna diversa e speciale, fotografate a Lampedusa, Portopalo, Siracusa, Catania e nelle carceri di San Vittore a Milano e Sollicciano a Firenze. Le foto documentano gli istanti, a volte drammatici, degli arrivi nella “terra promessa”, la Sicilia, culla di civiltà e contraddizioni. Isola di approdi, di speranza. Accanto agli sbarchi, uno spaccato delle carceri italiane, sempre più popolate da detenuti stranieri: in questo caso islamici, ritratti durante il Ramadan. Sono volti sofferenti, affranti da stanchezza e privazioni, solo la luce nello sguardo a tradire la certezza di avercela fatta e la speranza. E poi altri volti, e questa volta la sofferenza è rassegnazione e rabbia. Risulta facile celebrare ancora liturgie a favore dei vinti, ma ritengo più onesto testimoniare l’essenzialità del viaggio come percorso interiore, come perseguimento di necessità. Immagini come proiezioni di un disagio che ci trova tutti osservatori partecipi e responsabili.


Che consiglio daresti a chi vuole diventare fotografo professionista in Italia?

Se tornassi indietro andrei a studiare all'estero. Non solo fotografia. Questa è una professione dove la qualità del lavoro spesso è data dalla sensibilità interiore dovuta alla conoscenza, al sapere, alle esperienze. Infine consiglio cinema, vedere i film girati da ottimi registi e direttori della fotografia in gamba.


A cosa stai lavorando attualmente?

Sto ultimato un lavoro sulla clausura religiosa e la preghiera. Un mondo dove è difficile mettere piede ma ancor di più documentare con la macchina fotografica. Esperienza intensa.


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