"Io amo l'Italia." Leonard Freed. Mostra alle Stelline, Milano, fino al 08/01/2012.
“There is a mathematical grid in the photograph. There is a rhythm.” (1)
Nel rileggere un’intervista rilasciata da Leonard Freed a Nathalie Herschdorfer (2), la mia attenzione si sofferma sulla considerazione che Freed fa rispetto alla connessione tra le sue fotografie ed il tempo: “The thing is I am trying to get into my photographs the element of time” (3). Parole che generano in me una serie di osservazioni in relazione al progetto di immagini italiane al quale proverò a introdurvi nelle pagine seguenti.
Dalle interviste e dalle opere di Leonard Freed, emerge come dato di fatto che fu un uomo di poche parole. (4) Sfogliando poi, alcuni dei diari che scrisse durante i numerosi viaggi che lo portarono in Italia tra il 1999 e il 2005 si accredita definitivamente questa teoria. Le considerazioni di Leonard Freed sono sempre coincise, dirette, ironiche e denotano tutta la finezza di osservazione che il suo sguardo ha saputo racchiudere nelle immagini da lui realizzate. Oltre che nei suoi diari di viaggio, che spesso sono delle note, atte a ricordare nomi, incontri, date e conversazioni, il tempo, Leonard Freed, lo ha racchiuso nelle sue fotografie. Interessante, al riguardo, prendere in considerazione alcuni dei bozzetti che disegnò di suo pugno per l’impaginazione del libro su Roma, progetto che per molti anni ha sognato di portare a termine. Mettendo questi in relazione con i provini a contatto stampati e archiviati in ordine cronologico, emerge immediatamente un fattore di rilievo: il progetto editoriale che Leonard Freed aveva intenzione di realizzare aveva come idea di base quella di impostare le immagini secondo la sequenza temporale in cui erano state scattate. Ecco allora che la fotografia diviene diario, narrazione del tempo, scheletro e corpo dei numerosi viaggi e rende al lettore una cronologia appartenuta intimamente all’autore.
Leonard Freed rientra in quella generazione di fotografi, considerata “self assigned form of reporting” (5), che ha spesso basato il suo lavoro, non tanto su un incarico da parte di riviste o quotidiani, quanto sulla possibilità di “pianificare e gestire tempi, soggetti e stile dei propri reportage secondo le modalità pienamente autoriali, all’interno di progetti non strettamente legati a temi di immediata attualità, spesso con complesse fasi di preparazione e lunghi soggiorni sul campo” (6), soprattutto in corrispondenza con le modalità di lavoro della Magnum Photos. Condizione lavorativa che gli ha permesso di curare e coltivare, per oltre cinquanta anni, una passione, o meglio quella che lui stesso ha definito una “Storia d’amore” (7): l’Italia.
Il viaggio di Leonard Freed nel Bel Paese è stato un iter composto da numerose tappe che si sono dilazionate nel corso di cinquanta anni e che hanno dato vita a una visione complessa e sfaccettata della nazione. L’incipit di un pellegrinaggio che lo portò a realizzare oltre quarantacinque viaggi, proviene probabilmente da una serie di considerazioni e interrogativi (8) che Leonard Freed iniziò a porsi nel 1954, quando cominciò a rivolgere il suo interesse fotografico verso Little Italy, il noto quartiere italiano di New York. A sostegno di questa osservazione vi è il parallelo con uno dei suoi più noti reportage: Black in White America. Come è noto, l’idea di realizzare un lavoro sulla condizione degli afroamericani negli Stati Uniti, balenò nella testa di Freed, quando si trovò in Germania, davanti al muro di Berlino, faccia a faccia con un soldato statunitense di colore, che era lì a servire la propria terra, indossando l’uniforme e imbracciando un fucile (9). Quel soldato stava servendo una patria, che tuttavia, non lo ripagava con la stessa moneta: infatti le leggi della segregazione razziale, nel 1963, erano ancora in vigore in moltissimi Stati, in particolar modo nella maggior parte degli Stati del Sud. Leonard Freed, scelse allora di tornare in America e di raccontare questa storia. Le fotografie di Little Italy, raffigurano simbolicamente lo stesso processo di ricerca: partendo da un microcosmo marginale ci si allontana fino a raggiungere il nodo centrale del problema. Nel caso di Black in White America sarà un viaggio di ritorno dal Vecchio Continente verso il Nuovo, nel caso italiano sarà un viaggio di andata dal Nuovo verso il Vecchio Continente: in entrambi i percorsi, un input che dà vita alla voglia di allargare la ricerca, approfondire il problema e recarsi fisicamente nel luogo d’origine, per arrivare a toccare con mano le cause della situazione iniziale con la quale si era confrontato, ricostruendo a ritroso il processo causa- effetto.
È inoltre interessante notare che il lavoro di Freed, ha avuto spesso la tendenza a concentrarsi sulle minoranze etniche: se intendiamo gli italiani di Little Italy un’etnia ghettizzata e minoritaria, possiamo ricollegare la loro condizione a quella degli Indonesiani in Olanda (10), a quella degli afroamericani di Black in White America o, come ci fa notare Bill Ewing (11), agli scatti di Police Work, dove la visione del fotografo rende visivamente la condizione sociale del poliziotto come quella di un gruppo marginale di persone.
Dal 1956 in poi Leonard Freed inizierà a recarsi in Italia con continuità, attraversandola verticalmente nello spazio e orizzontalmente nel tempo: visiterà per la prima volta Roma, Firenze, Napoli e Siena scattando cinquanta rulli di immagini; tornerà nella capitale nel 1958 per assistere all’elezione di Papa Pio XII, impressionando oltre quattrocento fotogrammi.
Di questi anni alcune delle sue immagini italiane più note, tra cui quelle della straordinaria nevicata del 1956, che vedono giocare con la neve alcuni sacerdoti, davanti a un bianchissimo colonnato di San Pietro; ma la dinamicità, l’ironia di questi scatti sono solo un assaggio di tutti i futuri passi.
Leonard Freed segue l’onda di altri due grandi fotografi: Robert Frank (anche lui come Freed vicino alla figura di Alexey Brodovitch) e William Klein, che sul finire degli anni ’50, avevano rispettivamente realizzato Les Americains (12) e Rome (13), dando vita a un “nuovo tipo di fotografia sociale” (14). Frank, Klein, Freed, collegano l’Europa e gli Stati Uniti: così mentre il primo nato a Zurigo si naturalizza statunitense, gli altri due di origine americana vanno verso il vecchio mondo, in quella spinta del post- reportage, che si basava su una “chiave di ricerca del senso” (15). I simboli che Frank in America ritrovava nel juke box, nei motel, nelle automobili e nelle bandiere, Klein a Roma nelle motociclette Vespa o nelle donne dallo sguardo affascinante e Freed nelle prime Fiat Cinquecento, nell’imbarco del transatlantico Andrea Doria (16) e nelle tradizioni di un paese con una storia lunga, quale quella Italiana.
Saranno gli anni ‘60 a confermare la sua presenza sul territorio italiano: in concomitanza con l’ingresso nel 1972 nell’agenzia Magnum, tra il 1973 e il 1976 dedicherà la sua attenzione alle due grandi isole, recandosi principalmente in Sicilia, ma allo stesso tempo realizzando nel 1974 un reportage in Sardegna sull’Asinara per il Sunday Times. Il magazine pubblicherà un’unica immagine a colori e di grande formato, ma dall’analisi dei provini a contatto emergono tre rulli di pellicola in bianco e nero, che si concentrano in particolar modo sulla vita scolastica dei figli delle guardie carcerarie che prestavano servizio in Sardegna. Va notato a questo proposito che le immagini scattate all’Asinara sono le uniche che Freed realizzò in seguito a un vero e proprio incarico.
Molti sono gli scatti realizzati per strada o all’interno delle case, spesso con lo sguardo fisso in macchina e spesso in posa. Vi è comunicazione continua, interazione, evidenziata dai movimenti, e frequentemente da giochi di luce e ombra che invece di sottolineare i contrasti, legano soggetto e paesaggio. Non bisogna tralasciare inoltre la serie relativa alla “tonnara”, immagini che trasmettono tutta l’agitazione, la fatica e gli odori della notte in mare. Leonard Freed non era un fotografo dell’istante decisivo, lui amava raccontare le storie, articolandole, mostrandone l’inizio, lo svolgimento e la fine; così anche nel caso dei nostri pescatori siciliani, non si fermò solo a fotografare le reti in acqua, ma segui l’intero procedimento, catturando tutti i momenti della produzione: dagli uomini che escono in mare quando è ancora buio, alle donne che si occupano di inscatolare nella latta la carne pescata.
Va inoltre notato che la Sicilia è uno dei pochi luoghi dove Freed si serve dell’utilizzo del “ritratto ambientale in posa”: ritraendo i soggetti nei loro luoghi abituali, come ad esempio la casa o il posto di lavoro, non solo li libera dal senso di disagio provocato dalla presenza della macchina fotografica, ma li rende “protagonisti attivi della ripresa” (17), servendosi dell’ambientazione come indice delle condizioni socio-culturali.
In ultimo, ma non di minore importanza, ricordiamo le immagini del 1974, che raccontano un popolo spaccato in due dal referendum abrogativo della legge Fortuna-Baslini, che aveva introdotto il divorzio in Italia, nel 1970. Gli italiani sono nelle piazze, con in mano cartelli e scritte di protesta. Leonard Freed è di nuovo tra i manifestanti, esattamente come era accaduto dieci anni prima (1963-1965), mentre viaggiava negli Stati Uniti del Sud per raccontare la storia delle battaglie per i diritti civili degli afroamericani.
Da notare come tendenza già in embrione nelle sue visite sporadiche in Italia negli anni ’80 e ‘90, che poi troverà la sua massima espressione nei successivi scatti romani, l’individuazione del legame tra elementi del presente e elementi del passato. Nel testo che Leonard Freed scrisse per introdurre le sue immagini Amsterdam: The Sixties ricordiamo queste parole: “I came from New Amsterdam and this old Amsterdam was the revelation that shaped and changed my life; it fused an old and a new world, left me outsider. As the pendulum moves, so do I. In the old I am new, while in the new I am old”(18). Freed sembra continuare a coltivare questa sensazione provata e vissuta negli anni ‘60 in Olanda e portarla sempre con sè, prima in una fase iniziale, appunto nel ventennio che va dalla fine degli anni ’70 alla fine degli anni ’90 nei suoi viaggi nell’Italia centro meridionale, per poi arrivare alla fioritura e alla sua espressione totale e consapevole nei primi anni del XXI secolo a Roma. È molto frequente di fatti trovare composizioni che ricercano il contrasto tra il nuovo e l’antico, in una percezione del tempo, dove lo sguardo possa dondolarsi. L’interazione tra i soggetti fotografati e l’ambiente circostante si rivela essere spesso il punto nodale delle immagini prodotte da Freed: il contatto si basa sia una ricerca sul piano grafico (vediamo quindi un ripetersi di motivi e di forme, dei continui richiami e dialoghi tra le persone e gli oggetti che li circondano, vedi ad esempio le ruote della carrozzina e quelle delle moto dei soldati—roma 1958—o ancora i cavalli nelle immagini di Napoli del 1956 e le donne sedute in strada alle cui spalle altre figure femminili creano ritmo e sono come le cifre di una stessa combinazione), sia su una ricerca sul piano simbolico (la creazione di legami di significato tra la “scenografia” e “gli attori” dell’immagine mette in luce la comunicazione che vi è all’interno della composizione e la nascita di strutture simboliche, spesse volte intuite con grande sagacia).
Lo stesso vale per tutto ciò che concerne Roma e i monumenti o gli ambienti nei quali le persone fotografate sono inserite: vi è costante studio della morfologia dei volti, degli sguardi e degli atteggiamenti del corpo, in relazione con statue, manifesti, immagini pubblicitarie, elementi di arredo urbano. Ed è proprio questo procedere per contrasti che caratterizza la poetica di Freed: ecco allora i nudi al Colosseo, i sacerdoti in posa per una foto al Pantheon mentre una anziana mendicante chiede l’elemosina, il velo di una sposa a Venezia che segue la linea concava di una gondola, un sacerdote di spalle che sembra voler lanciare una palla di neve verso il colonnato di San Pietro, la Roma Borghese, la Roma degli Zingari, la Milano della moda, la Sicilia dei pescatori e delle gente semplice, le donne che ricamano e gli sguardi intensi all’Asinara.
Come la figlia di Leonard, Susannah, mi ha spesso ricordato, durante il periodo in cui ho abitato a Garrison per occuparmi di questo progetto, egli era solito “creare le immagini e vedere la scena prima nella sua mente, e solo dopo, in un secondo momento guardare attraverso il mirino e scattare un numero abbastanza limitato di fotogrammi per trovare la combinazione perfetta”. Inoltre, sempre come Susannah mi raccontava, aveva trovato il modo ideale per dissimulare la forza della sua Leica, nascondendola e screditandola sotto un buon numero di adesivi, che la liberassero dal carattere invadente e professionale e gli permettessero di muoversi in modo agile nelle situazioni che intendeva catturare.
Partendo da questa serie di elementi Leonard Freed nel 1999, iniziò a fotografare Roma.
Rileggendo i suoi diari, che narrano i soggiorni italiani di questi anni, emergono vari punti salienti: le pagine più dense e consistenti sono conservate nei diari del 1999, quando si recò di nuovo nella capitale per la prima volta dopo molto tempo ed era forte e viva in lui la sensazione di meraviglia e di nuovo. È in questi appunti, scritti con attenzione e rigore che narra le sue sensazioni, ma non è mai un fiume in piena, è sempre contenuto e ponderatore, tendenzialmente pungente.
Nel diario del 16 Dicembre del 1999 afferma:
la differenza tra gli italiani e le altre persone. Mentre stavo fotografando tre donne sedute su una sedia di plastica loro hanno detto: - Ecco ora ci hai immortalate!. Questo è il modo di pensare delle italiane; una francese avrebbe detto: - Il nostro corpo ci appartiene ed è privato, tu non puoi usarlo!. Un’americana invece: - Quanto mi paghi?. Le italiane sentono di essere state immortalate, rispettando il creatore [...] l’italiana vede se stessa onorata dall’artista.(19)
Le immagini di Roma costituiscono il gruppo di maggiore corpo dell’intera produzione: sono realizzate con continuità e con una struttura progettuale pensata precedentemente in maniera dettagliata. Leonard Freed è nei vicoli, nelle case, tra le persone, nelle chiese, nei musei, nei bordelli, per quasi cinque anni, tranne una parentesi veneziana nel 2004, per la realizzazione di Venice|Venezia in collaborazione con il fotografo romano Claudio Corrivetti. Analizza moltissimi aspetti e va sempre a fondo, non resta mai in superficie, entra nelle situazioni: la sua è una Roma movimentata e mai uguale a se stessa, fatta di tanti diversi palcoscenici dove già sa che accadrà qualcosa; non la città delle cartoline, ma la città delle persone, degli incontri, degli sguardi e dei gesti.
Nello stesso arco di tempo—che va dal 2000 al 2005—altri quattro fotografi Magnum si avvicinavano a Roma: primo tra tutti Koudelka, realizzando una serie di panoramiche in bianco e nero, di carattere paesaggistico. Poi ancora Martin Parr, con una serie di scatti abbastanza noti, a colori, che hanno come soggetto principale i turisti. Ancora Paolo Pellegrin con dei ritratti in bianco e nero scattati all’interno del Vaticano e infine, non meno importante un progetto a colori del tedesco Thomas Hoepker.
Lo stesso accadeva nel corso degli anni ’70 quando, mentre Freed si recava in Sicilia insieme a Cartier- Bresson, Ferdinando Scianna, realizzava un reportage sul Sud della penisola Italiana, concentrandosi in particolar modo su Calabria e Lucania; Dennis Stock, Marc Riboud transitavano sul nostro territorio, mentre Richard Kalvar, vi era con maggiore frequenza, per la realizzazione del progetto editoriale Italy 1978-1984. La grande differenza tra i reportage dei nomi Magnum citati fino ad ora e Freed, oltre a essere ovviamente di tipo stilistico e tecnico, riguarda proprio l’aspetto del tempo. Quello di Leonard non è un semplice passaggio in Italia, ma è un amore vero, un’idea costante nella sua fotografia, che fino ad ora era rimasto in gran parte sconosciuto, paragonabile in parte al recente lavoro di Eliott Erwitt, terminato nel 2009 e altrettanto esteso negli anni, ma con un taglio autoriale, totalmente differente.
Finalmente oggi, grazie al contributo speciale e alla costanza di Brigitte Freed, moglie e compagna di lavoro di Leonard, si porta a termine un viaggio lungo una vita, un percorso iniziato e rimasto a lungo in sospeso; si chiude quel cerchio aperto a Little Italy nel 1954. In concomitanza con il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, Leonard Freed ci offre la sua personale visione del nostro popolo, lungo tutta la seconda metà del 1900.
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1. Leonard Freed, Worldview, Steidl, Londra, 2007, pag. 208.
2. N. Herschdorfer, "Wandering with a Purpose," ivi, pag. 203.
3. ivi, pag. 207.
4. Bill Ewing, “Wide World,” ivi, pag.11
5. Brett Abbott, Engaged Observers, Getty, Los Angeles, 2010, pag. 1.
6. G. D. Fragapane, "Arcaismi/modernismi. La Sardegna nella fotografia del secondo dopoguerra", in M. Miraglia, G. Fragapane, F. Faeta, M. Di Felice, S. Novellu M. Miraglia, G. Fragapane, F. Faeta, M. Di Felice, S. Novellu, La fotografia in Sardegna. Lo sguardo esterno, gli anni del dopoguerra, Ilisso, Nuoro, 2009.
7. Leonard Freed ha usato le parole “storie d’amore”, riferendosi all’Italia, in una lettera di auto-incarico che scrisse a Magnum Photos nel 1999, quando iniziò il suo progetto su Roma.
8. Come lui stesso dichiara nell’intervista rilasciata a Nathalie herschdorfer in Worldview, pag. 203: “ There is something Nietzsche sai that struck me. It was about illness. To get better, you have to overcome the illness. But this is followed by another illness, and then another, until there is a fnal illness-death- that kills you. So each of the issues that I choose- the Jews, the Germans, the Black People, the Police, and so on- are my illness, or problema tha I have to overcome”.Leonard Freed ha dichiarato varie volte la funzione “curativa” che la fotografia ha avuto nella sua vita. Vedi anche l’intervista on line rilasciata alla rivista fotografica NITAL: “ Io, se non fotografo, mi sento grasso, malato. Come un corridore ha bisogno di allenarsi correndo, così io devo muovermi, camminare. Ma lo devo fare con uno scopo, che è quello di fare fotografie. Se vado in giro a fotografare sto bene fisicamente e mentalmente”.
9. Leonard Freed, Black in White America, Grossman, 1968, pag. 6.
10. Leonard Freed, Amsterdam: The Sixties, Focus Publishing, Amsterdam, 1997.
11. Leonard Freed, Worldview, Steidl, Londra, 2007, pag. 15.
12. Robert Frank, Les americains, pubblicato a Parigi nel 1958 da Robert Delpire e riedito da Steidl nel 2009, con il titolo Robert Frank’s The Americans, Looking in.
13. William Klein, Roma, Feltrinelli, Milano, riedito nel 2009 da Contrasto con il titolo Roma+Klein.
14. R. Valtorta, "La vita al di là del reportage", in id. Il pensiero dei fotografi, Bruno Mondadori, Milano, 2008, pag. 141.
15. ivi, pag. 142
16. Transatlantico Andrea Doria: affondato il 25 Luglio 1956 dopo la collisione con la nave MN Stockholm. Proveniente da Genova e diretto a New York, in seguito all’impatto, probabilmente dovuto a una forte nebbia, persero la vita quarantasei dei 1706 passeggeri presenti a bordo quella notte. La nave affondò la mattina del 26 Luglio 1956, undici ore dopo il forte scontro. In seguito a tale collisione vi fu un irrigidimento delle norme di navigazione e una maggiore attenzione nella preparazione degli armatori, soprattutto per ciò che concerneva l’utilizzo dei radar.
17. M. Miraglia, “Lo ‘stile documentario’ nella ripresa del secondo Dopoguerra”, in M. Miraglia, G. Fragapane, F. Faeta, M. Di Felice,
S. Novellu M. Miraglia, G. Fragapane, F. Faeta, M. Di Felice, S. Novellu, La fotografia in Sardegna. Lo sguardo esterno, gli anni del dopoguerra, Ilisso, Nuoro, 2009, pag. ?
18. Leonard Freed, Amsterdam: The Sixties, Focus Publishing, Amsterdam, 1997, pag. 9. “Io provenivo dalla Nuova Amsterdam, e questa Vecchia Amsterdam, per me fu la rivelazione che modellò e cambiò la mia vita; si fondeva il nuovo mondo con l’antico, lasciandomi estraneo. Come si muove il pendolo, così faccio io. Sono vecchio nel nuovo, mentre sono nuovo nel vecchio”
19. Tratto dai diari inediti di Leonard Freed, letti su gentile concessione della moglie Brigitte Freed.