Fu scattata da Kevin Carter, qua trovate un po' di informazioni su questo scatto.
Di seguito riportiamo un interessante documentario di Canal+ sulla vita del reporter sudafricano
Può un oggetto essere bello e orrendo allo stesso tempo? Può un’immagine raffigurare l’orrore ed essere dotata di un tremendo fascino ipnotico? Può coniugarsi la potenza di una descrizione con lo smarrimento dello spirito e con la perdita dell’umanità?
Era giovane Kevin, un ragazzo. E come tutti i giovani, sognava di salire sulla vetta del mondo. Ci è pure salito Kevin, in cima al mondo, ma quando si è ritrovato a contemplare, dal silenzio dell’altezza raggiunta, il baratro che lo circondava, specchio infranto del vuoto del suo spirito disperato, non ha resistito ed ha scelto il silenzio; quello assoluto e senza sottintesi della morte. Nella forma che riscatta dai delitti dello spirito o dalle ansie della volontà: il suicidio.
Kevin Carter è stato un giornalista. Il suo giornalismo non era fatto di parole, non dava adito ad interpretazioni e non concedeva nulla ai malintesi. Il suo era il giornalismo fatto con le immagini; quelle che l’obiettivo della sua macchina fotografica riusciva a fissare sull’emulsione della pellicola.
Era giovane, Kevin, l’abbiamo detto. Sudafricano di Johannesburg, nato nel 1960, in pieno regime di “apartheid”.
Ed era stato proprio in questo periodo che il giovane fotografo aveva iniziato a documentare le atrocità che gli uomini, in nome di “ideali superiori”, riuscivano a perpetrare su altri uomini; le brutalità che riuscivano a commettere, spinti più che da nuovi ideali, da antichi odi.
Lavorando al Johannesburg Star, Carter fu il primo a documentare, negli anni ottanta, la “necklacing execution” o supplizio del pneumatico. Una pratica di barbara brutalità con la quale si faceva ardere un pneumatico attorno al collo di un uomo.
Successivamente, sarebbe arrivato a dire di quelle orrende immagini: “Ero sconvolto vedendo cosa stavano facendo. Ero spaventato per quello che io stavo facendo. Ma poi le persone hanno iniziato a parlare di quelle immagini, così ho pensato che forse le mie azioni non fossero poi così cattive. Essere stato un testimone di qualcosa di così orribile non era necessariamente un male.”
Ma non furono queste immagini “urlanti” a determinare la sua fine, bensì un’immagine “silenziosa”. Non con uno schianto finirà il mondo, ma con un lamento, ci ricorda il poeta ed è con un sommesso lamento che è finito il mondo per Kevin Carter.
Probabilmente molti conoscono la foto che ha dato a questo fotografo, sia la fama planetaria che l’impossibilità di continuare a vivere. È una delle più potenti e spiritualmente devastanti immagini che si possano vedere. Una di quelle immagini che non vorremmo mai vedere e che dobbiamo invece vedere e ripassare davanti ai nostri occhi costantemente. Per non dimenticare. Mai.
La foto, scattata nel marzo 1993 in Sudan durante la guerra civile, fa vincere a Carter il Premio Pulitzer nel 1994, ma gli fa anche porre fine alla propria vita, appena tre mesi dopo. Tre mesi, solo in vetta al mondo, contemplando la propria disperata solitudine, raggiunto, nonostante l’altezza, dal biasimo che lo circondava, ma soprattutto da un flebile lamento che gli ricordava, come dice Hillman, che “la maggior parte dell’anima sta fuori dal corpo”. Poi, la fine, il silenzio, la pace per quell’anima sofferente e incapace di ritrovarsi, dopo l’incontro “irrisolto” con una piccola immensa creatura.
Kevin Carter muore suicida e molti interrogativi lo accompagnano nella tomba.
Una piccola bambina prostrata dagli stenti, indifesa, sofferente, rannicchiata su se stessa, presa di mira da un avvoltoio paziente e implacabile, ha fatto il giro del mondo per la sua forza devastante e per le critiche rivolte al suo autore, che è stato a lungo immobile a guardare la scena per scattare la fotografia migliore. Questa piccola splendida creatura è divenuta, per tutti noi, l’incubo diurno, la pasafrasi di un mondo che ha perso i valori della pietà, della compassione.
Si racconta che Carter udì un sommesso piagnucolio e vide una bambina che tentava di arrivare al centro di alimentazione (secondo alcune versioni, distante un chilometro). La inquadrò per fotografarla e nell’inquadratura apparve un avvoltoio. Lentamente, per non disturbare l’uccello, cercò la posizione migliore per scattare la foto.
Avrebbe raccontato lui stesso di avere atteso oltre venti minuti, sperando che l’avvoltoio non volasse via. Dopo aver scattato la foto, Carter scacciò l’animale ed abbandonò la bimba al proprio destino.
Il Premio Pulitzer diede a Carter fama mondiale, ma assieme ad essa sarebbero arrivati i fantasmi orrendi del rimorso.
Amici e colleghi si ponevano la fondamentale questione, sulla ragione che aveva impedito al fotografo di dare soccorso alla bimba della foto. “L’uomo che sa solo regolare il suo obiettivo per catturare la migliore inquadratura della sofferenza”, disse il St Petersburg Times, “può solo essere anch’esso un predatore, un altro avvoltoio sulla scena.”
Prostrato dai sensi di colpa e dalla depressione, incapace di ritrovare la propria umanità, Kevin Carter, si ucciderà il 27 luglio del 1994, a trentatre anni.
Lascerà scritto”Sono inseguito dai ricordi delle uccisioni, le torture, l’angoscia, il dolore dei bimbi affamati e feriti…”.
Non c’è alcuna morale in questa storia. Non si può trovare una morale nella cosa più immorale che l’uomo abbia inventato: la guerra. Cerchiamo solo di introdurre spunti di riflessione sui perché delle guerre. Sul perché si vada ancora per il mondo a distribuire dolore e morte e si vogliano spacciare questi crimini contro l’umanità, come “missioni di pace”. Perché si impieghino tecnologie costosissime per dare morte e sofferenza, invece che utilizzarle per portare soccorso agli ultimi, ai prostrati, ai derelitti, ai sofferenti. Perché si investano capitali immensi per creare strumenti di dolore, di sopraffazione, di sterminio. Perché tanta sottile perfidia e tanta sordida ipocrisia.
Era giovane Kevin e non ha avuto il tempo di invecchiare. Ha condiviso il destino della piccola e fragile creatura che ha immortalato in immagine. Forse un gesto, anche piccolo, avrebbe cambiato le sorti di entrambi. Ma l’assurdità della guerra è anche questa.
Fonte: ethocracy.net
Era giovane Kevin, un ragazzo. E come tutti i giovani, sognava di salire sulla vetta del mondo. Ci è pure salito Kevin, in cima al mondo, ma quando si è ritrovato a contemplare, dal silenzio dell’altezza raggiunta, il baratro che lo circondava, specchio infranto del vuoto del suo spirito disperato, non ha resistito ed ha scelto il silenzio; quello assoluto e senza sottintesi della morte. Nella forma che riscatta dai delitti dello spirito o dalle ansie della volontà: il suicidio.
Kevin Carter è stato un giornalista. Il suo giornalismo non era fatto di parole, non dava adito ad interpretazioni e non concedeva nulla ai malintesi. Il suo era il giornalismo fatto con le immagini; quelle che l’obiettivo della sua macchina fotografica riusciva a fissare sull’emulsione della pellicola.
Era giovane, Kevin, l’abbiamo detto. Sudafricano di Johannesburg, nato nel 1960, in pieno regime di “apartheid”.
Ed era stato proprio in questo periodo che il giovane fotografo aveva iniziato a documentare le atrocità che gli uomini, in nome di “ideali superiori”, riuscivano a perpetrare su altri uomini; le brutalità che riuscivano a commettere, spinti più che da nuovi ideali, da antichi odi.
Lavorando al Johannesburg Star, Carter fu il primo a documentare, negli anni ottanta, la “necklacing execution” o supplizio del pneumatico. Una pratica di barbara brutalità con la quale si faceva ardere un pneumatico attorno al collo di un uomo.
Successivamente, sarebbe arrivato a dire di quelle orrende immagini: “Ero sconvolto vedendo cosa stavano facendo. Ero spaventato per quello che io stavo facendo. Ma poi le persone hanno iniziato a parlare di quelle immagini, così ho pensato che forse le mie azioni non fossero poi così cattive. Essere stato un testimone di qualcosa di così orribile non era necessariamente un male.”
Ma non furono queste immagini “urlanti” a determinare la sua fine, bensì un’immagine “silenziosa”. Non con uno schianto finirà il mondo, ma con un lamento, ci ricorda il poeta ed è con un sommesso lamento che è finito il mondo per Kevin Carter.
Probabilmente molti conoscono la foto che ha dato a questo fotografo, sia la fama planetaria che l’impossibilità di continuare a vivere. È una delle più potenti e spiritualmente devastanti immagini che si possano vedere. Una di quelle immagini che non vorremmo mai vedere e che dobbiamo invece vedere e ripassare davanti ai nostri occhi costantemente. Per non dimenticare. Mai.
La foto, scattata nel marzo 1993 in Sudan durante la guerra civile, fa vincere a Carter il Premio Pulitzer nel 1994, ma gli fa anche porre fine alla propria vita, appena tre mesi dopo. Tre mesi, solo in vetta al mondo, contemplando la propria disperata solitudine, raggiunto, nonostante l’altezza, dal biasimo che lo circondava, ma soprattutto da un flebile lamento che gli ricordava, come dice Hillman, che “la maggior parte dell’anima sta fuori dal corpo”. Poi, la fine, il silenzio, la pace per quell’anima sofferente e incapace di ritrovarsi, dopo l’incontro “irrisolto” con una piccola immensa creatura.
Kevin Carter muore suicida e molti interrogativi lo accompagnano nella tomba.
Una piccola bambina prostrata dagli stenti, indifesa, sofferente, rannicchiata su se stessa, presa di mira da un avvoltoio paziente e implacabile, ha fatto il giro del mondo per la sua forza devastante e per le critiche rivolte al suo autore, che è stato a lungo immobile a guardare la scena per scattare la fotografia migliore. Questa piccola splendida creatura è divenuta, per tutti noi, l’incubo diurno, la pasafrasi di un mondo che ha perso i valori della pietà, della compassione.
Si racconta che Carter udì un sommesso piagnucolio e vide una bambina che tentava di arrivare al centro di alimentazione (secondo alcune versioni, distante un chilometro). La inquadrò per fotografarla e nell’inquadratura apparve un avvoltoio. Lentamente, per non disturbare l’uccello, cercò la posizione migliore per scattare la foto.
Avrebbe raccontato lui stesso di avere atteso oltre venti minuti, sperando che l’avvoltoio non volasse via. Dopo aver scattato la foto, Carter scacciò l’animale ed abbandonò la bimba al proprio destino.
Il Premio Pulitzer diede a Carter fama mondiale, ma assieme ad essa sarebbero arrivati i fantasmi orrendi del rimorso.
Amici e colleghi si ponevano la fondamentale questione, sulla ragione che aveva impedito al fotografo di dare soccorso alla bimba della foto. “L’uomo che sa solo regolare il suo obiettivo per catturare la migliore inquadratura della sofferenza”, disse il St Petersburg Times, “può solo essere anch’esso un predatore, un altro avvoltoio sulla scena.”
Prostrato dai sensi di colpa e dalla depressione, incapace di ritrovare la propria umanità, Kevin Carter, si ucciderà il 27 luglio del 1994, a trentatre anni.
Lascerà scritto”Sono inseguito dai ricordi delle uccisioni, le torture, l’angoscia, il dolore dei bimbi affamati e feriti…”.
Non c’è alcuna morale in questa storia. Non si può trovare una morale nella cosa più immorale che l’uomo abbia inventato: la guerra. Cerchiamo solo di introdurre spunti di riflessione sui perché delle guerre. Sul perché si vada ancora per il mondo a distribuire dolore e morte e si vogliano spacciare questi crimini contro l’umanità, come “missioni di pace”. Perché si impieghino tecnologie costosissime per dare morte e sofferenza, invece che utilizzarle per portare soccorso agli ultimi, ai prostrati, ai derelitti, ai sofferenti. Perché si investano capitali immensi per creare strumenti di dolore, di sopraffazione, di sterminio. Perché tanta sottile perfidia e tanta sordida ipocrisia.
Era giovane Kevin e non ha avuto il tempo di invecchiare. Ha condiviso il destino della piccola e fragile creatura che ha immortalato in immagine. Forse un gesto, anche piccolo, avrebbe cambiato le sorti di entrambi. Ma l’assurdità della guerra è anche questa.
Fonte: ethocracy.net