Biografia
Nato a Roma nel 1964 frequenta inizialmente la facoltà di Architettura all' Università della Sapienza, ma abbandona gli studi senza conseguire la laurea durante il terzo anno di corso. Riconosciuto come uno dei maggiori fotoreporter di guerra collabora con testate giornalistiche quali Newsweek e New York Times magazine. E' stato insignito di numerosi premi, tra cui la Robert Capa Gold Medal (2006), lo Eugene Smith Grant in Humanistic Photography (2006), l' Olivier Rebbot for Best Feature Photography (2004), la Leica Medal of Excellence (2001), otto World Press Photo tra il 1995 e il 2007.
È appena tornato dal Cairo, dove è stato testimone dei movimenti tellurici che hanno portato il paese a un nuovo assetto politico, ma alla domanda sei un reporter d'assalto replica:
Sono tutto fuorché questo. Io sono un fotografo dei tempi lunghi, mi interessa la dimensione umanistica di quello che faccio, il racconto dell'uomo, e questo richiede un rapporto, anche dilatato, con i soggetti, i luoghi... Ovviamente la componente "avvenimenti", la Storia che si muove, è un nodo importantissimo e inevitabile, ma è uno spunto iniziale, io seguo una chiave umanistica, antropologica.
Come nasce Paolo Pellegrin?
Studiavo a Roma, architettura alla Sapienza, ero al terzo anno, ma non ero convinto, così ho deciso di cercare la mia strada altrove. E la fotografia mi interessava, da sempre. In realtà avrei voluto studiare antropologia, ma dopo architettura non mi andava di iscrivermi a un'altra facoltà. Mi sembrava che la fotografia potesse essere un modo per investigare sul mondo, sull'uomo, insomma, su me stesso. Questi ultimi 15, 20 anni, sono anni di grande complessità, estrema accelerazione, il mondo si è trasformato e si trasforma a una velocità impressionante. E noi abbiamo la fortuna di vivere una storia accelerata. Chiaramente anche con tutta una serie di grossi, enormi problemi. L'11 settembre è stato uno spartiacque.
Ma l'occhio di un fotografo nota dei cambiamenti nelle sue immagini? Si adatta a questa accelerazione?
Nel mio caso, il processo, casomai, è l'opposto... La fotografia è interessante perché è la traduzione immediata, istantanea, di chi è il fotografo in quel momento... L'atto del fotografare, che è una cosa così semplice, in realtà racchiude una cosa complessa: ogni volta che scattiamo, diamo voce a un pensiero, a un'opinione e trasmettiamo chi siamo in quel momento. E io ora so che la mia voce, la mia fotografia, sta diventando più asciutta, si sfronda.
Perché la tua mostra si chiama Dies irae?
Il titolo non l'ho scelto io, ma l'ho abbracciato perché penso che in questi anni, nel post 11 settembre, in questo mondo cambiato, e cambiato da noi, ci poteva stare un'idea di furia, o di ira.
Fellini, quando gli chiesero quale fosse tra i suoi il film quello che gli era piaciuto di più rispose che era come chiedere a un padre di scegliere il preferito tra i suoi figli.
Credo che la paternità dell'autore sia solo iniziale. Io come fotografo mi ritengo la scintilla, l'incrocio di cose che hanno creato delle immagini che poi hanno vita propria e quasi non mi appartengono più. Comunque, non ragiono in termini di singole immagini, ciò che mi interessa è un corpus di lavoro, come per esempio quello sulla Palestina: lì c'è la guerra in Libano nel 2006, ci sono le varie incursioni israeliane in Cisgiordania o a Gaza… La mia idea, insomma, è di una fotografia che si compone di singoli momenti che formano un insieme, un organismo che racconta la Storia. Noi abbiamo il grande privilegio e la responsabilità di essere dei testimoni.
Hai mai paura? Cioè pensi mai: mi sto esponendo ma questa foto la faccio lo stesso?
Beh, certo, i reporter si mettono sicuramente in gioco, pesantemente. Ma se decidi di assumerti il ruolo di testimone, esporsi è una condizione sine qua non, fa parte dell’equazione, complessa per altro, dello stare in certi posti. E starci vuol dire anche muoversi e riuscire a navigare e sopravvivere, ed è quindi un’enorme parte di quello che facciamo noi fotografi.
Le immagini, per quel che mi riguarda, non sono mai create. Credo di essere un testimone e in quanto tale non mi permetto mai di intervenire sulla realtà, il mio unico intervento è quello della mia presenza, è quello di esserci. Se ti metti, invece, a manipolare le situazioni, o a costruirle, viene meno la credibilità che il fotogiornalismo deve avere, secondo me. E poi, ho sempre trovato che la realtà fosse talmente complessa e ricca che non c’è bisogno di stare lì a rifarne un’altra.