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mercoledì 14 dicembre 2011

talento fnac: vincitori della nona edizione | 2011

vincitori della nona edizione | 2011

Tra gli oltre 900 lavori partecipanti – segno di fermento e vitalità della fotografia italiana – ecco i progetti selezionati dalla giuria:
© Federica Di Giovanni | Vincitrice del Premio Fnac 2011

Federica Di Giovanni

Vincitrice del Premio Fnac 2011


Con Camping Italia, un lavoro di documentazione e insieme analisi antropologica degli italiani in vacanza nei campeggi estivi. Con uno sguardo ironico, fresco e attento, con uno stile contemporaneo e comunicativo, la fotografa racconta uno spaccato di realtà italiana, riuscendo a cogliere uno spirito collettivo che, in un’epoca globalizzata, resta ancorato saldamente alla propria terra, ai propri usi e costumi. [ Per saperne di più… ]
© Carlotta Zarattini | Menzione speciale Internazionale

Carlotta Zarattini

Menzione speciale Internazionale


Raccontando la vita quotidiana di un edifico occupato nel cuore di Phnom Penh, la fotografa mostra, con il lavoro Boudeng, il White Building, i paradossi della società cambogiana, sospesa tra un presente difficile e un passato che tenta di rimuovere. Le foto, scattate quasi tutte nella penombra dei corridoi e degli appartamenti, riescono a trasmettere, con un linguaggio sapiente e delicato, l’atmosfera che si respira nel White Building. [ Per saperne di più… ]
© Alfredo Bosco | Menzione speciale TPW

Alfredo Bosco

Menzione speciale TPW
Con Stone City, un reportage sulle giovani generazioni di Tashkent, capitale dell’Uzbekistan, “città di pietra”, espressione del regime di Islam Karimov. Il fotografo è riuscito a documentare la condizione di coetanei che vivono in un mondo diverso dal suo, ritraendoli nel loro ambiente e nella loro quotidianità, con uno sguardo complice e uno stile coinvolgente e mai pietistico. [ Per saperne di più… ]
© Alberto Dedé | Menzione speciale

Alberto Dedé

Menzione speciale


Con il lavoro Ogni volta che guarderai ricorda che io ci sarò sempre, il fotografo ha realizzato una rigorosa mappatura del territorio de L’Aquila, colpito dal terremoto il 6 aprile 2009. Mettendo a confronto le immagini di Google Streetview, di una città ancora intatta, con fotografie realizzate ex novo dei medesimi luoghi, il fotografo si interroga sul concetto di documento e invita a riflettere sul paradosso della memoria virtuale, strumento del futuro che rimanda un’immagine del passato. [ Per saperne di più… ]
La mostra del vincitore sarà inaugurata l’11 gennaio 2012 nella Galleria Fotografica Fnac di Milano, via Torino ang. via della Palla.
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Federica Di Giovanni


Federica Di Giovanni nasce a Ponza il 1° aprile 1980. Dal 2008 è fotografa freelance, impegnata in lavori di fotogiornalismo, moda, corporate e fotografia di scena. Dopo il DAMS cinema a Bologna, la scuola triennale di fotografia alla Fondazione Studio Marangoni di Firenze, inizia a collaborare con varie riviste italiane e internazionali tra cui Sportweek, Io Donna, Vogue, Gioia e Monocle. Ha esposto in varie collettive, tra cui Piattaforma 09 a cura di Filippo Maggia alla Fondazione Fotografia di Modena, Foto d’autrice, mostra curata da Cesare Colombo e Giovanna Calvenzi alla Galleria Belvedere di Milano e Santo Spirito a Firenze curata da Oliviero Toscani.


Camping Italia

Le cartoline dal Camping Italia sono il racconto di un’ora che racchiude l’attimo e l’assoluto: il telegiornale delle 20, l’ora degli zampironi e delle luci al neon, della crema doposole e delle cene di vicinato. Sono immagini che fotografano l’anima collettiva degli italiani in vacanza e la perdita di uno spirito nomade che, se ci apparteneva, è storia dell’altro mondo. Il campeggio, innocente Zingaropoli di “non clandestini”, è diventato una succursale estiva dei caseggiati, dove si ripetono le stesse dinamiche di condominio dalle quali vorremmo tanto fuggire (anche se qui è concesso passare tra i tiranti e il bucato dei vicini per andare al bagno). Ovunque vadano gli italiani si portano dietro un pezzo sempre più grande di casa. Finisce l’era delle canadesi pericolanti e inizia quella dei fabbricati vista mare, le tendine, i fiori finti alle finestre, il minipimer per ogni occasione, i comfort ai quali non si può rinunciare. Il Camping Italia è come l’odore del mare, che sa di Autan, cipolle fritte, grigliate e pineta, e forse, in fondo, anche di acqua e sale, un misto di roba che ti muove da dentro e che non sai meglio identificare.


Camping Italia  © Federica Di Giovanni
Camping Italia © Federica Di Giovanni
Camping Italia  © Federica Di Giovanni
Camping Italia © Federica Di Giovanni
Camping Italia  © Federica Di Giovanni
Camping Italia © Federica Di Giovanni
Camping Italia  © Federica Di Giovanni
Camping Italia © Federica Di Giovanni
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Carlotta Zarattini


Nata nel 1985 in provincia di Padova e cresciuta a Lugano, Svizzera. Laureata in Lettere Moderne all’Università di Bologna nel 2008, si trasferisce a New York nel settembre 2009 per frequentare il corso di fotogiornalismo all’International Center of Photography, dove si diploma nel luglio 2010. Tra i suoi clienti Fader Magazine e The Wall Street Journal. Vive tra la Svizzera e l'Italia.


Boudeng, il White Building

Costruito negli anni ‘60 nel centro di Phnom Penh, a meno di un chilometro di distanza dal palazzo reale, il White Building, o Boudeng, come viene chiamato dalla gente del posto, è un complesso residenziale pensato per ospitare gli atleti dei giochi olimpici asiatici che si sarebbero dovuti tenere in Cambogia. Ma nell’aprile del 1970, quando i khmer rossi entrarono trionfanti nella capitale cambogiana dichiarando l’inizio dell’anno Zero, le cose improvvisamente cambiarono: tutte le città vennero svuotate e i cittadini furono costretti a una marcia estenuante verso le campagne. Per i seguenti cinque anni nessuno seppe niente di quello che sarebbe poi stato definito uno dei peggiori tentativi di realizzazione dell’utopia comunista, e soltanto quando i vietnamiti invasero la Cambogia nel 1975 trovando centinaia di fosse comuni (si stima che in 5 anni siano morte più di 2 milioni di persone), i sopravvissuti furono finalmente autorizzati a lasciare le campagne per tornare nelle città. Oggi più di 2.000 persone, tra prostitute, bambini, famiglie, sopravvissuti, drogati e semplici lavoratori e disoccupati, vivono nel White Building, tra i muri impregnati di storia di questo palazzo ormai fatiscente, un tempo simbolo dello sviluppo cambogiano. Lo scopo di questo progetto è quello di documentare la vita all’interno del palazzo fino a che non verrà distrutto per far spazio a un nuovo complesso residenziale o commerciale, data la posizione molto centrale. Con il mio lavoro vorrei raccontare il White Building come contenitore di storie cambogiane, come metafora della storia di un paese, del suo passato, del suo presente e del suo futuro. Vorrei riuscire a capire e a documentare una memoria dimenticata, e il pericolo della sottovalutazione delle conseguenze della Guerra e del genocidio cambogiano. In un paese dove è meglio dimenticare il passato e dove i vecchi non raccontano ai giovani dei loro errori, quali sono le probabilità che la storia possa ripetersi?


Un campo di calcio è stato costruito sul terreno adiacente al White Building, dove più di 1.000 persone sono state evacuate nel 2009 da una società chiamata 7NG che ha acquistato il terreno dal governo  © Carlotta Zarattini
Un campo di calcio è stato costruito sul terreno adiacente al White Building, dove più di 1.000 persone sono state evacuate nel 2009 da una società chiamata 7NG che ha acquistato il terreno dal governo © Carlotta Zarattini
Sulla strada, di fronte al White Building  © Carlotta Zarattini
Sulla strada, di fronte al White Building © Carlotta Zarattini
Dei ragazzi giocano a biliardo la notte  © Carlotta Zarattini
Dei ragazzi giocano a biliardo la notte © Carlotta Zarattini
Una donna fuori di casa prima di un matrimonio  © Carlotta Zarattini
Una donna fuori di casa prima di un matrimonio © Carlotta Zarattini
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Alfredo Bosco


Alfredo Bosco nasce a San Miniato Alto (Pisa) nel 1987. Durante le superiori scopre la fotografia attraverso il teatro per poi trasferirsi a Milano nel settembre del 2006 dove si laurea in Filosofia e frequenta la scuola di fotografia John Kaverdash. È membro della redazione Miciap.com e assistente fotografo presso lo studio Prisma e SGP. Ha affrontato lavori come fotografo free lance in Iran, Libano, Haiti e Uzbekistan oltre a svolgere progetti fotografici nella stessa Milano.


Stone City

I ragazzi di Tashkent abitano una città che non riesce a garantirgli né un’istruzione adeguata se non sono iscritti alle costose università private, né la possibilità di avere punti di ritrovo dove potersi incontrare per svago. Sono intrappolati in un microcosmo e non hanno mai visto, almeno nella grande maggioranza, altri paesi al di fuori dell’Uzbekistan e molte volte neanche altre città uzbeke, famose all’estero per richiamo turistico come Samarcanda, Khiva e Bukhara. “A Tashkent c’è tutto per i turisti e gli uomini d’affari che passano di qua. Per noi è come vivere in una città priva di vita, una città di pietra”, il problema è che il significato di Tashkent è proprio questo: città di pietra, espressione del regime di Islam Karimov, padre onnipresente del popolo uzbeko, tiranno feroce secondo Craig Murray, ex ambasciatore della Gran Bretagna in Uzbekistan, eroe nazionale secondo le televisioni di stato che elogiano il presidente e la storia del paese. I risultati del suo governo però parlano chiaro fuori dai confini dell’Uzbekistan. Il paese secondo l’Economist Intelligence Unit Index of Democracy (dati del 2010) risulta essere al quart’ultimo posto dei paesi del mondo per libertà di espressione, insieme ad altri stati come: Turkmenistan, Ciad, Birmania e Corea del Nord. In poche parole la repubblica presidenziale è in realtà un regime autoritario a tutti gli effetti, poiché dal 1991 non è mai esistito nessun governo al di fuori del suo. Qui il vento della primavera araba non è mai riuscito a soffiare tra le strade di questa capitale, crocevia di enormi investimenti stranieri di paesi europei e asiatici che tollerano questo governo poco incline ad aperture democratiche, alleato prezioso per la guerra intrapresa dalle nazioni occidentali in Afghanistan. Questo progetto fotografico intende sottolineare l’isolamento di questa popolazione, attraverso ritratti dichiarati e no, dove i soggetti sono a loro agio di fronte a una macchina fotografica, nonostante il timore di poter avere problemi ad ospitare un fotografo straniero, rischiando i controlli della militsiya locale. Il fotografo ha frequentato quotidianamente in particolar modo i ragazzi che studiano presso la facoltà di lingue straniere e il conservatorio nazionale di Tashkent, osservando in maniera discreta le loro vite in quello che erano giornate tipo per loro.


2011, Uzbekistan, Lilya studia inglese e giapponese. Non vorrebbe essere nella facoltà di lingue straniere, ma il padre spera che imparando il giapponese lei possa lavorare in futuro come operatore turistico per il sempre più crescente numero di visitatori.  © Alfredo Bosco
2011, Uzbekistan, Lilya studia inglese e giapponese. Non vorrebbe essere nella facoltà di lingue straniere, ma il padre spera che imparando il giapponese lei possa lavorare in futuro come operatore turistico per il sempre più crescente numero di visitatori. © Alfredo Bosco
2011, Uzbekistan, palazzi popolari presso Oybek  © Alfredo Bosco
2011, Uzbekistan, palazzi popolari presso Oybek © Alfredo Bosco
2011, Uzbekistan, rottame di Lada nei pressi del quartiere armeno vicino al bazar dell’ippodromo  © Alfredo Bosco
2011, Uzbekistan, rottame di Lada nei pressi del quartiere armeno vicino al bazar dell’ippodromo © Alfredo Bosco
2011, Uzbekistan, interno soggiorno di una famiglia benestante tagika  © Alfredo Bosco
2011, Uzbekistan, interno soggiorno di una famiglia benestante tagika © Alfredo Bosco
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Alberto Dedé


Nato nel 1977, vive e lavora a Milano come fotografo professionista, ricercatore visivo e docente. Mentre una parte del lavoro che produce ha un focus editoriale, la maggior parte della sua ricerca personale ha come centro l’edilizia abitativa informale e, più in generale, gli equilibri degli insediamenti umani. La sua indagine tende a esplorare le potenzialità della fotografia in qualità di rilevamento e di mappatura sistematica. Alcuni dei suoi lavori sono stati esposti presso: Palazzo Zorzi Biennale di Architettura di Venezia, Triennale di Milano, Fondazione Mazzotta, Espai culturale Caja Madrid Barcellona.


Ogni volta che guarderai ricorda che io ci sarò sempre per te

Alle 3.32 del 6 aprile 2009 un forte terremoto colpiva la città de L’Aquila. Il servizio di Google Streetview consentiva di visitare virtualmente L’Aquila da neanche un mese. Successivamente al sisma il capoluogo abruzzese diventa terreno di battaglie politiche e discussioni mediatiche intorno al programma di ricostruzione. Lo spostamento del G8 dalla Maddalena a L’Aquila trasforma l’evento in una vetrina per pubblicizzare una pronta ricostruzione. La stessa Presidenza del Consiglio il 23 aprile 2009 dichiara: “si tratta di un forte segnale per il rilancio di zone così duramente colpite”. A distanza di oltre due anni la città è tuttora deserta. Le immagini di Streetview sono ancora le stesse. Affiancando l’immagine virtuale a quella reale, fotografata due anni dopo il sisma, non si vuole solo creare un documento sulle conseguenze del terremoto, ma suggerire un paradosso. Non si tratta unicamente di un prima e un dopo, ma di due città che coesistono: una nella virtualità della rete, l’altra nella drammatica realtà abruzzese, con la prima fruibile da chiunque e la seconda ancora oggi preclusa ai suoi stessi abitanti.


Arco Santa Croce, L’Aquila  © Alberto Dedé
Arco Santa Croce, L’Aquila © Alberto Dedé
Via Centrale in Ripa, L’Aquila  © Alberto Dedé
Via Centrale in Ripa, L’Aquila © Alberto Dedé
Via Panfilo Tedeschi, L’Aquila  © Alberto Dedé
Via Panfilo Tedeschi, L’Aquila © Alberto Dedé
Arco Santa Croce, L’Aquila  © Alberto Dedé
Arco Santa Croce, L’Aquila © Alberto Dedé