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mercoledì 16 novembre 2011

Il giardino di Anna fotografie di Paola Camiciottoli

La bellezza amara di un corpo femminile. Il corpo è quello, bello, nudo e ferito della cinquantaquattrenne Anna Buroni, sopravvissuta a una terribile malattia che l´ha colpita dieci anni fa. Lei, che da tre decenni lavora alla programmazione cinematografica del gruppo Germani spiega: «Un´amica, Paola Camiciottoli, bravissima fotografa, mi chiese di posare per un servizio fotografico contro tendenza, mirato alla femminilità e alla bellezza che sopravvive alla malattia, nel mio caso un carcinoma alla cervice particolarmente aggressivo, che mi ha costretto ad una lunga degenza e a un piano di trattamenti d´urto per ridurre al massimo il tumore prima di un intervento chirurgico. Ne sono venute fuori immagini forti, a volte difficili da accettare, in contrasto con quello che oggi viene proposta come immagine di donna, giovane, perfetta, glamour».


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Perché ha deciso di mostrarsi in queste foto?
«Sono foto emotive, che offrono un messaggio: la femminilità la sensibilità, la bellezza sopravvivono alla malattia, al tempo, alle avversità. Il giardino di Anna, come mi dice sempre Paola mostra foto che sono immagini di un percorso. E´ una narrazione fotografica nel difficile cammino di riappropriazione di sé e di riconciliazione con la vita. Riuscire a risalire, lentamente, imparare a guardarsi ancora, desiderare di esprimere la donna che sopravvive ad ogni mutilazione, ad ogni vuoto, al desolante sentire della propria interiorità, così segretamente vissuta nella realtà delle sensazioni. Un corpo-carne-anima che ha bisogno di nutrirsi ancora rifugiandosi nel confronto degli echi immaginari del sogno e della poesia».

Cos´è che l´ha aiutata di più nel suo doloroso percorso di guarigione?
«L´amore di mio figlio Luca certo, che adesso ha 17 anni e che mi è sempre stato vicino. Ma anche l´amicizia e l´arte di una straordinaria fotografa come Paola Camiciottoli che grazie alla mostra e all´audio video Il giardino di Anna, mi ha restituito nuova vita. Pensi che quando abbiamo fatto le foto siamo state fra noi una giornata in silenzio: non dicevamo nulla, ma sapevamo di creare qualcosa di importante. Mi ha aiutato molto anche mia insegnante di danza orientale Ivana Caffaratti».

Qual è la molla che l´ha portata dalla malattia all´arte?
«Quando si sta bene non si pensa a niente. Se ad un certo momento della vita viene diagnosticato un tumore viene da riflettere: forse non c´è più tanto tempo. A quel punto viene voglia di dare una seconda possibilità alla propria vita. Per me ripeto è stata fondamentale la danza orientale, la sua spiritualità. Vede, io ho dovuto fare cicli di ricovero in ospedale, perché la chemio mi veniva fatta 24 ore su 24 in maniera lentissima ma efficace. L´esito è stato anche troppo favorevole, dopo tre anni di cure e interventi ho superato tutto benissimo. Da allora ho deciso di vivere appieno la mia vita e le mie passioni».

Chi le ha dato il coraggio di mostrare il suo corpo scalfito dalla malattia?
«Quando ero giovane e carina mi avevano fatto molte proposte di foto e anche di apparizioni cinematografiche: non avevo mai accettato. Ho voluto invece mostrare il mio corpo che ha avuto delle sofferenze perché le immagini fotografiche portano con se un senso di profondità, di sofferenza, di speranza. Sapevo poi che la bravura di Paola Camiciottoli evitava ogni rischio di equivoco e volgarità».

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Forse tutto ciò che abbiamo paura di guardare fino in fondo: noi stessi nella voragine della malattia vissuta come tradimento del corpo e nella ferita dell’anima che segna i suoi solchi sulla pelle. Una lacerazione tanto esterna quanto interna e viceversa.

Riuscire a risalire, lentamente, imparare a guardarsi ancora, desiderare di esprimere la donna che sopravvive ad ogni mutilazione, ad ogni vuoto, al desolante sentire della propria interiorità, così segretamente vissuta nella realtà delle sensazioni. Un corpo-carne-anima che ha bisogno di nutrirsi ancora rifugiandosi nel conforto degli echi immaginari del sogno e della poesia. Unica forza che si fa luna nella notte, la cui luce riesce a generare un nuovo essere sé come presenza rinnovata.

Un cammino di crescita alla ricerca della fertilità generatrice che, con passo di danza, trae forza da ciò che sfugge all’oscurità. Cercare di abbandonare con immensi sospiri la sensazione di un peso che sembra voler spento un corpo vivo. Abbandonarsi. Perdersi. Ritornare a sé. Prendere coscienza dell’esistenza di una fragilità e di una vulnerabilità che cerca espressione, contatto, circoscrizione.

Identificare un dolore, riuscire a farlo proprio per potersene poi liberare. Sì, un percorso di libertà. Di nuovo ordine. E la fotografia come necessità di una testimonianza. Come l’andare oltre la superficie della sensibilità per poterla penetrare nella sua tenerezza e nella sua sgraziata verità, nella sua scarna sincerità e nella sua irriverente offesa.

“Il Giardino di Anna” diventa così un percorso simbolo e in questa terra il corpo è corpo universale e metafora del profondo più intimo, un viaggio fotografico nell’invisibile attraverso il visibile dove l’obiettivo si fa lente-aurea e trasparenza nell’essere. Radiografie irrinunciabili nel telaio della vita.

Per tutte le donne e per tutti gli uomini che riusciranno a vedere la luna nella notte, e per non lasciar cadere nel silenzio il profumo delle continue rifioriture nel nostro giardino di donne ferite.

Paola Camiciottoli