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giovedì 8 settembre 2011

Leggermente fuori fuoco-Slightly out of focus - Il diario-libro di Robert Capa




Il diario di Robert Capa sulla sua partecipazione, come fotoreporter di guerra, alla Seconda guerra mondiale. Con uno stile accattivante e ironico, Capa ci racconta delle sue peripezie di viaggio, gli incontri fatti, l'atmosfera di quegli anni cruciali: l'Europa, l'Africa, la campagna d'Italia a fianco degli alleati, lo sbarco in Normandia, la liberazione della Francia. Un diario particolare, scritto come una sceneggiatura, ricco di colpi di scena, di storie d'amore, di personaggi intensi, di esperienze forti e drammatiche.

Per una degna recensione del lavoro lasciamo la parola ad Andrea Camilleri che ha curato la prefazione alla mostra collegata al libro:

"Leggermente fuori fuoco", il diario-romanzo di Robert Capa sulla sua partecipazione, come fotoreporter di guerra, alla Seconda guerra mondiale. Con stile accattivante e ironico, Capa ci racconta delle sue peripezie di viaggio, gli incontri fatti, l'atmosfera di quegli anni cruciali: l'Europa, l'Africa, la campagna d'Italia, lo sbarco in Normandia, la liberazione della Francia... Un diario particolare, scritto come una sceneggiatura, ricco di colpi di scena, di storie d'amore, di personaggi intensi (tra cui l'amico Hemingway) e a volte esilaranti, di esperienze forti e drammatiche. Su tutto si impone lo stile asciutto e scansonato di Capa, la sua capacitˆ di raccontare storie e di "amare la gente e farglielo sapere".

Nei cieli sopra il Tempio di Agrigento infuriava un duello aereo: l'allora giovanissimo scrittore conobbe così il grande reporter.
Appena la prima jeep americana arrivò, nel luglio del '43, a Serradifalco dove la mia famiglia si trovava sfollata, agguantai una bicicletta e mi diressi verso il mio paese, Porto Empedocle, per avere notizie di mio padre che era rimasto lì durante lo sbarco alleato. Fu un viaggio allucinante, colonne americane fatte di carri armati giganteschi, camion stracolmi di soldati, cannoni, viveri, munizioni, jeep lanciate a velocità folle andavano verso il fronte, in senso inverso al mio e spesso mi trovai dentro un fosso o su un prato.
Traversai paesaggi di morte. Uno ne ricordo in particolare, un uliveto dove era avvenuto uno scontro tra carri armati italiani e carri armati americani. Tutto appariva bruciato, di un colore nero-marrone scuro; dentro i nostri carri, vere scatole di sardine sventrate, c'erano ancora i corpi dei nostri soldati. Arrivato in paese, seppi che mio padre era salvo, si trovava sul porto. Non ebbi la forza di andare da lui, mi diressi verso casa, avevo l'assoluta necessità di lavarmi, di distendermi su un letto. Ma dal portone di casa si partiva e procedeva lungo le scale un'ordinata fila di soldati americani ognuno munito di sapone e asciugamano: avevano scoperto che il mio appartamento era uno dei pochi muniti di vasca da bagno e doccia e lo stavano adoperando. Spiegai chi ero (quasi tutti erano figli di siciliani emigrati negli Usa e parlavano il dialetto) e mi cedettero immediatamente il primo posto nella fila.
In casa non c'era un mobile, uno specchio, una sedia, un libro, niente, mio padre mi spiegò dopo che approfittando dei bombardamenti che avevano preceduto lo sbarco gli sciacalli si erano portati via tutto.
Per dormire, si era procurato una branda militare e ne trovò un'altra per me. Su quella branda ho fatto, per la stanchezza e le emozioni, uno dei sonni più profondi della mia vita. All'indomani, e non so ancora spiegare il perché, appena aperti gli occhi, mi vennero a mente i templi di Agrigento. Ero sicuro che i bombardamenti li avevano danneggiati. Volevo vederli, controllare di persona. Inforcai la bicicletta e cominciai a pedalare. Non so come riuscii a fare la salita della Catena, tutta la stanchezza del giorno prima era di colpo tornata. Dall'alto, il porto era una babilonia di navi e di anfibi, navi si vedevano in attesa a perdita d'occhio. Inoltre c'erano, sospesi in aria, decine e decine di enormi palloni che avrebbero dovuto impedire un attacco aereo ravvicinato. Ormai pedalavo sbandando. Un negro su una jeep ebbe pietà di me e mi caricò con tutta la bici, lasciandomi proprio ai piedi del tempio della Concordia.
Nella luce abbagliante di quella mattina di luglio, il tempio m'apparve intatto. Nello spiazzo antistante c'era un soldato americano che stava fotografando il tempio. O almeno tentava. Perché inquadrava, scuoteva la testa, si spostava di qualche passo a sinistra, scuoteva nuovamente la testa, si spostava a destra. A un tratto si mise a correre, si fermò, cercò un'altra angolazione. Neppure questa volta si mostrò contento. Io lo guardavo meravigliato. Il tempio quello era, bastava fotografarlo e via. Che cercava? Doveva essere un siciliano, lo si capiva dai tratti, forse voleva portare un ricordo ai suoi familiari in America. In quel momento, fummo assordati da un rumore di aerei e di spari. In cielo, ma a bassissima quota, si stava svolgendo un duello tra un aereo tedesco e uno americano. Mi gettai a terra. Anche il soldato si gettò a terra, ma, al contrario di me, a pancia all'aria. Scattava fotografie una appresso all'altra senza la minima indecisione, la macchina tra le sue mani era un'arma, una mitragliatrice. Poi i due aerei scomparvero. Ci rialzammo, gli dissi qualcosa in dialetto. Non capì. Io non parlo inglese, ma qualche parola la capisco. Mi spiegò che era un fotografo di guerra. Mi scrisse su un pezzetto di carta il suo nome: Robert Capa. Per me, allora, un perfetto sconosciuto. Ci salutammo. Ripresi la bicicletta, tanto la strada ora era tutta in discesa.
Adesso, se mi capita di guardare una delle foto «siciliane» di Capa, di quei giorni risento persino gli odori, ricordo i suoni, le parole, i rumori. Perché Capa, come tutti i grandi artisti, non solo rappresentava il presente, ma sapeva, contestualmente, consegnarcene una memoria eternamente viva e pulsante.


Biografia dell'autore:

Robert Capa, pseudonimo di Endre Ernő Friedmann (Budapest, 22 ottobre 1913 – Provincia di Thai Binh, 25 maggio 1954), è stato un fotografo ungherese.

I suoi reportage rendono testimonianza di cinque diversi conflitti bellici: la guerra civile spagnola (1936-1939), la seconda guerra sino-giapponese (che seguì nel 1938), la seconda guerra mondiale (1941-1945), la guerra arabo-israeliana (1948) e la prima guerra d'Indocina (1954).

Capa documentò inoltre il corso della seconda guerra mondiale a Londra, nel Nordafrica e in Italia, lo sbarco in Normandia dell'esercito alleato e la liberazione di Parigi. Il fratello minore di Capa, Cornell, è stato anch'egli un fotografo.
Indice


Nato in Ungheria, Capa abbandona in giovane età la terra natale a causa del proprio coinvolgimento nelle proteste contro il governo di estrema destra; milita nel Partito Comunista locale. L'ambizione originaria di Capa è di diventare uno scrittore, ma l'impiego presso uno studio fotografico a Berlino lo avvicina al mondo della fotografia.

Nel 1933 lascia la Germania alla volta della Francia a causa dell'avvento del nazismo (Capa era di origini ebraiche), ma in Francia incontra difficoltà nel trovare lavoro come fotografo freelance.

È in questo periodo che adotta lo pseudonimo di Robert Capa - per il suono più familiare all'estero e per l'assonanza con il nome del popolare regista statunitense Frank Capra - e fonda con altri l'agenzia fotografica Magnum Photos (1935); dal 1936 al 1939 si trova in Spagna, dove documenta gli orrori della guerra civile.

"Il miliziano colpito a morte"

Nel 1936, Capa diviene famoso in tutto il mondo per una foto scattata a Cordova, dove ritrae un soldato dell'esercito repubblicano colpito a morte da un proiettile sparato dai franchisti. Questa foto è tra le più famose fotografie di guerra mai scattate. Fu pubblicata, per la prima volta, sulla rivista VU, poi su Life, sul Picture Post e poi migliaia di altre volte.

La foto è stata al centro di una lunga diatriba in merito alla sua presunta inautenticità, che sarebbe dimostrata in base al lavoro svolto dallo storico della fotografia Ando Gilardi, che avrebbe analizzato, nei primi anni '70, i negativi originali di Capa relativi alla nota foto.

Stando alla ricostruzione di Gilardi, il quotidiano di Barcellona "El Periodico de Catalunya" avrebbe accertato che la celebre foto fu scattata nei pressi di Cordova, in Andalusia, nel villaggio di Espejo, e non nella località di Cerro Muriano, come affermato da Robert Capa. Il quotidiano, inoltre, precisa che le due località si trovano a 50 km di distanza, con il decisivo particolare che a Espejo, nei giorni in cui venne scattata la foto, non si svolgeva alcun combattimento tra i miliziani repubblicani e le forze fasciste agli ordini di Francisco Franco. Secondo il quotidiano di Barcellona, la foto di Capa sarebbe stata scattata ai primi di settembre del 1936, quando Espejo era ancora saldamente nelle mani delle forze repubblicane, mentre una battaglia era invece in corso a Cerro Muriano. Solo a fine settembre si registrò, infatti, qualche scontro isolato a Espejo, peraltro senza vittime. A metà degli anni '90 si diffuse, poi, la notizia che il miliziano ritratto da Capa fosse un anarchico, tale Federico Borrell García, il quale sarebbe morto effettivamente in combattimento, ma non in campo aperto come nella celebre foto, bensì dietro un albero. A sostegno della tesi dell'inautenticità è anche un libro dello studioso José Manuel Susperregui, "Sombras de la fotografia" (Ombre della fotografia), in cui si afferma che l'immagine sarebbe stata scattata con una Rolleiflex, appartenuta alla compagna di Capa, la fotografa comunista tedesca Gerda Taro, morta a 27 anni nel 1937 nei pressi di Madrid (a Brunete, schiacciata durante un errore di manovra di un carro armato 'amico'), mentre Capa fotografava esclusivamente con una Leica. La Rolleiflex produce negativi di forma quadrata, i negativi della Leica sono, invece, rettangolari. Ancora a sostegno di questa tesi, esistono anche video che sarebbero frutto di ricerche digitali e geo-morfologiche, reperibili su un noto motore di ricerca audio-visivo e un documentario tedesco sulla grande figura di Capa.

Di per sé, l'eventuale inautenticità della foto nulla toglierebbe al valore storico che essa ha acquisito come simbolo dei soldati lealisti morti durante la guerra civile spagnola.

Tuttavia, lunghe ricerche storiche condotte dal biografo di Capa Richard Whelan affermano, invece, con certezza che la foto sarebbe indiscutibilmente autentica. Il miliziano è, in effetti, l'unico morto quel giorno, Federico Borrell Garcia, che sarebbe morto effettivamente a Cerro Muriano, nei pressi di Cordova, nel 1936, e la notizia sarebbe registrata negli archivi ufficiali.

La mostra di fotografie di Robert Capa e Gerda Taro che s'è tenuta al Forma di Milano, dal 28 marzo al 21 giugno 2009, presenta materiale molto recente, a sostegno dell'autenticità della foto.

A chi poneva domande su quella foto, Capa rispondeva: "Per scattare foto in Spagna non servono trucchi, Non occorre mettere in posa. Le immagini sono lì, basta scattarle. La miglior foto, la miglior propaganda, è la verità."

Molte delle foto di Capa della Guerra civile spagnola furono, per molti decenni, ritenute perdute, ma riemersero a Città del Messico alla fine degli anni 1990. Mentre fuggiva dall'Europa nel 1939, Capa aveva perso la raccolta, che nel tempo fu soprannominata la "valigia messicana". La proprietà della raccolta fu trasferita alla Capa Estate, e nel dicembre 2007 passò al Centro internazionale di fotografia, un museo fondato dal fratello minore di Capa, Cornell, a Manhattan.

Allo scoppio del Secondo conflitto mondiale Capa si trova a New York, dove si era recato in cerca di lavoro e in fuga dalle persecuzioni anti-ebraiche; la guerra lo trova assegnato in diversi teatri dello scenario bellico. Inizialmente fotografa per il Collier's Weekly, per poi passare a Life.

La Seconda guerra mondiale: Capa in Sicilia

Nel luglio del 1943 raggiunge la Sicilia. Il grande reportage di Robert Capa sullo sbarco Anglo-Americano in Sicilia iniziò con un volo in paracadute, in perfetto stile bellico. Oltre alle immagini, Robert Capa ci ha lasciato le sue memorie in un diario pubblicato nel 1947 con il titolo Slightly out of focus (tradotto ed edito in Italia da Contrasto nel 2002 con il titolo Leggermente fuori fuoco). Nel suo diario, Capa, fotoreporter al seguito dell'esercito americano, riporta gli avvenimenti cruenti a cui assiste, racconta le fatiche di un'esperienza avventurosa e descrive la sensazione di vuoto e di angoscia che lo prende assistendo ai combattimenti: in particolare, proprio nelle settimane dell'Operazione Husky in Sicilia e della conseguente ritirata dei militari italiani e tedeschi. Il suo racconto, molto avvincente, rievoca gli avvenimenti della sua vita dall'estate del 1942 alla primavera del 1945.

Dopo un anno di lavoro nel Nord Africa, seguendo le truppe americane e appena licenziato dalla rivista Collier's Weekly, per la quale aveva inviato foto dall'Algeria e dalla Tunisia, Robert Capa si apprestò senza indugi a lasciare Tunisi e a farsi lanciare con il paracadute in Sicilia, avendo saputo che gli anglo-americani si stavano preparando a invadere l'isola. Era il luglio del 1943 e a bordo di un piccolo aereo con pochi soldati Capa arriva in Sicilia: di notte si lancia col suo paracadute, atterra su un albero, dove rimane sino all'indomani, quando gli altri tre paracadutisti che erano con lui lo trovano e lo aiutano a scendere. Il gruppo si incammina attraverso un bosco e giunge in una fattoria dove viene accolto da «un anziano contadino siciliano in lunga camicia da notte» che subito fraternizza con loro e li ospita per tre giorni, fin quando arrivano i militari della prima divisione americana. Unitisi a loro, Capa e i suoi compagni, possono avanzare verso gli importanti obiettivi militari della campagna di Sicilia.

Lungo il percorso Capa scatta numerose foto. Dopo tre settimane dallo sbarco, gli americani si avvicinano al capoluogo dell'isola. Ricorda Capa: «Eravamo alla periferia di Palermo i tedeschi erano stati isolati e ciò che restava delle forze italiane non aveva intenzione di combattere. La jeep che mi ospitava, seguiva i primi carri della seconda divisione corazzata lungo il percorso verso il centro della città. La strada era fiancheggiata da decine di migliaia di siciliani in delirio che agitavano fazzoletti bianchi e bandiere americane fatte in casa con poche stelle e troppe strisce. Avevano tutti un cugino a "Brook-a-leen". Ero stato all'unanimità riconosciuto come siciliano dalla folla in festa. Ogni rappresentante della popolazione maschile voleva stringermi la mano, le donne più anziane darmi un bacio e le più giovani riempivano la jeep di fiori e frutta. Nulla di tutto ciò mi fu di un qualche aiuto per scattare fotografie».

Giunto a Palermo, Capa, fotoreporter licenziato, invia le sue foto a Life convinto che la rivista americana «non avrebbe potuto certamente farne a meno» e sentito che la 1ª Divisione di Fanteria (USA) stava combattendo da qualche parte in mezzo alla Sicilia, si avvia alla ricerca della nuova battaglia da fissare sulla pellicola. Gli americani stavano combattendo a Troina nell'interno dell'isola e avevano notevoli difficoltà ad espugnare il paese difeso da soldati italiani e tedeschi che opponevano una strenua resistenza. I combattimenti durarono sette giorni. La ritirata e la resa avvennero solo dopo feroci bombardamenti aerei che distrussero gran parte del centro abitato della piccola cittadina.

Furono giorni di intenso lavoro per Capa che realizzò su quelle isolate montagne alcune foto che diventeranno tra le più famose della sua carriera, ma anche di profondo risentimento per tutto quello che gli accadeva intorno: «Era la prima volta che seguivo un attacco dall'inizio alla fine ma fu anche l'occasione per scattare ottime foto. Erano immagini molto semplici. Mostravano quanto noiosa e poco spettacolare fosse in verità la guerra. Il piccolo, bel paesetto di montagna, era completamente in rovina. I tedeschi che lo avevano difeso si erano ritirati durante la notte abbandonando alle loro spalle molti civili italiani, feriti o morti. Ci eravamo distesi per terra nella piccola piazza del paese, di fronte alla chiesa, stanchi e disgustati. Pensavo che non avesse alcun senso questo combattere, morire e fare foto, quando il generale Theodore Roosevelt Jr., sempre presente dove la battaglia era più dura, si avvicinò e puntando il suo bastone verso di me disse: "Capa al quartier generale di divisione c'è un messaggio per te. Dice che sei stato assunto da Life". Ripartito da Troina per Palermo e poi documentando ancora la guerra sino allo sbarco in Normandia, Robert Capa porterà con sé il suo convincimento amaro sulla natura della guerra: «Un inferno che gli uomini si sono fabbricati da soli». Convincimento che gli eventi siciliani avevano confermato e rafforzato.

Il 6 giugno 1944 partecipa al sanguinoso sbarco del contingente americano ad Omaha Beach, in Normandia. La maggior parte delle foto scattate durante lo sbarco andò perduta per un errore del tecnico di laboratorio addetto allo sviluppo (Larry Burrows, anch'egli divenuto fotografo di fama mondiale e morto anch'egli in Viet Nam, negli anni settanta); scamparono alla distruzione solo undici fotogrammi danneggiati, che trasmettono comunque tutta la terribile drammaticità dei momenti del D-Day.

Il dopoguerra e la morte

Nel 1947 a Parigi fonda - assieme a Henri Cartier-Bresson, David "Chim" Seymour e George Rodger - l'agenzia cooperativa Magnum, diventata una delle più prestigiose agenzie fotografiche.

Capa era famoso anche per la sua temerarietà, che lo aveva portato ad andare all'attacco con la prima ondata nello Sbarco in Normandia e a paracadutarsi da un aereo assieme ai militari professionisti per ritrarre da vicino l'attraversamento del Reno.

La sua passione e la sua vita, l'amore per la fotografia, lo porta a morire nel 1954 durante la Prima Guerra d'Indocina, al seguito di una squadra di truppe francesi, saltando in aria dopo essersi inoltrato inavvertitamente in un campo minato.

Qualche immagine:



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